I rivoltosi si dividono in tre squadre: la prima, per ogni evenienza, rimane sulla nave (saggia precauzione, ché — depose poi al giudice il fuochista Rebora — già era corsa fra gli uomini dello spodestato equipaggio l'«intelligenza» di far partire il vapore piantando a terra gl'incomodi nuovi padroni); la seconda, con Nicotera, Falcone e Danèri, accosta alla banchina, e là garbatamente domanda il permesso di visitare l'isola; la terza, con Pisacane in testa, s'è riservato il compito piú arduo: girare in barca la gettata del molo e assalir di sorpresa il posto di guardia (la Gran Guardia, secondo la pomposa nomenclatura borbonica). Non appena impegnato da questa squadra il conflitto — quattro feriti fra i rivoltosi — il gruppo Nicotera si avventa su altri militari di fazione sulla banchina, due ne getta in acqua, i restanti fa prigionieri. Indi corre a rinforzar Pisacane. La Gran Guardia si affretta a deporre le armi. Due cannoni che minacciano il porto vengon resi inservibili. I rivoltosi, a squarciagola inneggiando all'Italia, alla repubblica, alla liberazione dei relegati, si scagliano adesso contro il palazzetto dove ha sede il comando, fronteggiante la Gran Guardia. Per le scale dell'edificio un coraggioso ufficiale, il tenente Cesare Balsamo, li affronta con la sciabola sguainata; ma è sopraffatto, e stramazza colpito al petto. Un aiutante, che da un terrazzo del secondo piano invoca al soccorso, resta ferito. Il comandante la guarnigione non è un eroe: si dà prigioniero(320) (salvo poi, nei suoi rapporti, a gonfiare per sua giustificazione l'impresa del Cagliari fino a paragonarla a quelle dei «tempi del Barbarossa» e anche all'«inumana e barbara pirateria africana»). Tra quel frastuono ecco intanto affollarsi nella via sottostante i relegati a centinaia, pochi «politici» e molti «comuni» (o coatti, come oggi si direbbe): non han tardato a prender fuoco anche loro ed ora gareggiano con quelli del Cagliari nell'affrontar militari, nel far razzia d'armi, e piú nel gridare evviva ed abbasso.
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