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      Durò cosí per due ore. Pisacane avrebbe potuto benissimo, profittando della superiorità numerica, ordinare l'attacco a fondo o proseguire nella ritirata già predisposta; ma era sicuro che gli urbani non aspettassero se non il momento opportuno per abbracciare la causa della rivolta. Temporeggiò. D'un tratto, invece, sopraggiunsero le soldatesche del colonnello Ghio, il fronte borbonico s'avvicinò, la fucileria si fece intensa; molti rivoltosi caddero feriti od uccisi, il pericolo d'un accerchiamento completo si fece imminente. Le guardie urbane gareggiavano d'accanimento coi regolari. Pisacane si perse d'animo: quanto piú ostinatamente s'era ribellato fino allora a quel crescendo di disinganni che avevano accompagnato la marcia su Sapri, tanto piú tragicamente essi lo percotevano adesso, culminando, sintetizzandosi quasi, in quelle raffiche micidiali. Smarrí l'usata energia. Presentiva la fine: di sé, dei suoi, d'una Idea.
      La resistenza fu rabbiosa, in qualche punto anche eroica; ma bisognò ben presto desistere: troppo schiacciante era la superiorità del nemico. E allora, la resa? Ma la resa significava indubbiamente fucilazione pei capi, ergastolo per tutti gli altri. Ritirata, dunque: abbandonare quella maledetta regione per rifugiarsi in qualche località meno esposta, tagliata fuori dalle grandi vie di comunicazione. Data la posizione delle truppe borboniche, l'unico scampo possibile era ormai quello in direzione nord-ovest, verso il Cilento, cioè: il Cilento, terra classica delle rivolte.


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Carlo Pisacane nel Risorgimento italiano
di Nello Rosselli
pagine 502

   





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