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      Era il «popolo» che si precipitava su di loro, urlando, avido di strage; il popolo schiavo e sfruttato ch'egli aveva voluto redimere, e perciò s'era mosso da lungi e aveva affrontato le pene di quel tremendo calvario. Ma certo, quando avesse veduto «i briganti» immobili e inermi, si sarebbe fermato e avrebbe gettato gli strumenti del lavoro, con sacrilegio infame impugnati per dar la caccia all'uomo. Ed egli, Pisacane, avrebbe parlato e detto loro chi fosse e come mai venuto, lui colonnello e nobile, a combattere un re che era il loro comune tiranno; avrebbe saputo esaltarli nella speranza di un regime migliore, tutto del popolo, tutto pel popolo. Fors'anche li avrebbe infiammati con la lettura del suo proclama, quello di Torraca, di Casalnuovo: «Cittadini — È tempo di porre un termine alla sfrenata tirannide di Ferdinando II... Su dunque, chiunque è atto a portare le armi»...
      Le avevano impugnate, finalmente, le armi: né solo gli uomini, ma perfino le femmine, e gl'indemoniati ragazzi; e tutti insieme si rovesciavano, con incontenibile slancio satanico, su di lui, sui pochi compagni.
      Oh, quelle parole accese ch'egli stesso, forse, dodici mesi prima, aveva scritto per la Libera Parola; «se nel paese classico di Fra Diavolo, di Rinaldini, del Passatore e dei Lazzarini... non sorge nell'anima di alcuni strenui giovani il generoso pensiero di farsi i Fra Diavoli e i Lazzarini della libertà, di tentare e soffrire per l'indipendenza d'Italia quanto Gasparone, De Cesaris e migliaia dei loro simili hanno tentato e tentano tutt'oggi per un pugno d'oro.


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Carlo Pisacane nel Risorgimento italiano
di Nello Rosselli
pagine 502

   





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