.. Ora la sfortunata compagna di Pisacane, ridotta ad uno oscuro salotto d'entrata, avendo tutte le altre camere suggellate, fu costretta a disertare da casa sua cercando un ricovero altrove...»(363)
Sequestrate tutte le carte del suo diletto Carlo (minute di scritti politici, lettere di Cattaneo e, cocente per lei, la «confessione» che ella gli aveva mandata a Lugano, nell'ottobre '50), portati via tutti i libri, cacciata essa stessa fuori di casa, priva del conforto degli amici migliori, senza risorse economiche, con la piccola Silvia malaticcia, e, in un ambiente cosí stretto e severo come il Piemonte d'allora, senza neanche la suprema fierezza di venir rispettata qual vedova di Pisacane, Enrichetta si trovò, indifesa, alla mercè della polizia e, peggio, della loquace stampa. Ne compiangeva piú che ogni altro la durissima sorte (cui era essa stessa — per allora! — miracolosamente scampata) Rosetta, l'amica di Pilo, lamentando che sui giornali si fosse «scritta e pubblicata la loro storia amorosa; e anzi quella povera donna venisse anche disprezzata da molti, e chiamata donna venduta e di mondo».(364) E nonostante tutto Enrichetta non poteva, non voleva, non sapeva credere a quel che era accaduto: si difendeva contro l'atroce dolore, respingendolo, negandolo. «La povera Enrichetta... ancora non crede tutto quel che le dicono. Come sarà terribile il giorno in cui se ne persuaderà», scriveva Mazzini ancora il 14 luglio. Ed essa stessa, il 13 d'agosto, a Rosolino Pilo, rivelandogli tutta la sua tragedia interiore: «Sono 48 giorni dacché il mio Carlo m'abbandonò, si dice ch'ei sia morto da 41 giorni, ed io nol posso ancora credere.
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