Condanna, dunque. Alla cui severità contribuirono certo, oltre al sincero convincimento, preoccupazioni e prevenzioni d'altra natura. Innanzi tutto la pregiudiziale antifrancese, radicata sempre in Mazzini, radicatissima poi dal '49, da quando cioè le armi francesi avevano soffocato la repubblica romana. Dalla Francia ormai non può venire all'umanità niente di nuovo e di buono. «Una Nazione che ha dato l'ultima parola d'un'epoca non ha mai proferito la prima dell'altra: la Francia che ha incarnato in sé sul finire del secolo scorso le conquiste dell'epoca dell'individuo, non è probabilmente chiamata a iniziare l'epoca dell'associazione»(493); la Francia, profondamente inquinata di materialismo, non può rivelare al mondo la nuova fede. Accanto a questa pregiudiziale, la naturale reazione all'esaltamento della gioventú democratica italiana per le gesta della Comune e il timore che la caduta di questa possa segnare una crisi generale dell'idea repubblicana. «Oggi, v'è troppo del ribelle, troppo poco dell'apostolo in noi. E la bandiera dell'insurrezione ci affascina dovunque sorga e per qualunque cagione... Ogni audace affermazione trova un'eco nell'anima dei nostri giovani, non perché, scrutata maturamente, enunzi una parte ignota finora di vero, ma perché audace»(494). Bisogna fronteggiarla con risolutezza questa pericolosa esaltazione e costringere tutti a determinare il loro atteggiamento in base a un esame coscienzioso del programma di Parigi; non elettrizzarsi perché vi si vuol fondare la repubblica democratica, ma indagare che mai si celi sotto quel nome.
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