(360) Il Bignami, nato nel '47, dopo una breve parentesi di misticismo cristiano, era passato al mazzinianismo; divenuto poi ufficiale garibaldino (campagne del '66-67), aveva assorbito quello spirito materialistico e quella indeterminata tendenza al socialismo, che parevano divisa di molti seguaci di Garibaldi. I piú tra questi se ne contentavano: Bignami volle farsi una cultura specifica e uscire dall'ambito delle aspirazioni generiche e dell'umanitarismo di maniera. Nacque «La Plebe», che è documento del suo travaglio interiore. Questo giornale è oggi di difficilissima consultazione; ritengo anzi che una collezione completa non esista piú. La prima annata, che ho veduto, mi è stata favorita dalla cortesia della vedova del fondatore, signora Enrica Bignami.
Nel primo numero (4 luglio), i redattori cosí espongono il loro pensiero: «Repubblicani, noi non abbiamo fede che nella iniziativa del popolo; altra meta che la sua sovranità. Lotteremo quindi ad oltranza contro tutte le istituzioni che loro si oppongono, le fuorviano, ritardano. Razionalisti, non ingiuriamo il nome di uomo alcuno; amiamo la verità; ma non ammettiamo altri veri che quelli dimostrati dalla ragione. Socialisti, parteggiamo però per quel socialismo, che tende a livellare piú presto inalzando che deprimendo. Nel motto tutti per uno e uno per tutti, sta per noi la soluzione di tutti i problemi sociali». Linguaggio, come si vede, assai misurato.
(361) Quando, nella «Plebe», si parla del proletariato, il tono non è sostanzialmente diverso da quello usato dal «Dovere» o dall'«Unità italiana». Sí che appare davvero esagerato il sospetto grandissimo nel quale le Autorità tennero il modesto settimanale lodigiano; gli si affibbiò una nomea di rivoluzionario, di sovversivo assai poco corrispondente alla realtà; ché una certa vivacità di linguaggio di fronte alla monarchia non era nuova davvero negli annali della stampa repubblicana.
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