La casa dei suoi, piú che decente, sorgeva proprio nel centro, schiacciata in mezzo ad altre case bige, un po' cupa, senza sfondo di giardini o di larghi, tipicamente provinciale nel suo decoroso prospetto a pietrami, con un gran tetto spiovente. Il padre, Alessandro, era un piccolo possidente di terra e di case, ma soprattutto maestro dilettante di violino, organista e compositore d'occasione, personaggio importante in un paese in cui la passione musicale è sentitissima in tutti, e in una regione in cui l'orgoglio di possedere una banda, e di misurarla in periodiche sfide con l'altre del circondario, apporta tradizionalmente magri bilanci municipali. Luisa Pratesi, la madre, proveniva da una famiglia di grossi negozianti livornesi: avvenente della persona, d'animo e di temperamento dolcissimi, e d'intelligenza particolarmente vivace. La imaginiamo di fattezze un po' esili, di poca salute, e forse un po' spaesata in quel borgo di gente grossa e rumorosa, in cui le parentele erano e sono vastissime, e anzi metà della popolazione portava quello stesso casato dei Montanelli.
Giuseppe, toscanamente Beppe, fu il primogenito: seguirono due femmine, Teresa e Gegia. Prima infanzia senza storia nella bambagia della casa paterna, mentre la patria vedeva senza rimpianti e senza entusiasmi crollare la prestigiosa impalcatura francese e rientrare a palazzo Pitti, dalle brume del Nord, il bonario granduca, in tiro a quattro. Girate pei colli, a diporto o per visitare i poderi, e lunghe soste in chiesa, col padre rapito all'organo o con la madre in preghiere.
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