Imprigionato in quelle alte mura, tra gente sconosciuta, privato di quella divina armonia che gli parla la lingua della sua casa e dei suoi colli nativi, Beppe si consuma in tristezza. Passano lunghi mesi invernali, grigi come l'anima sua, cui già nella vita non par di scorgere che dolore e rinunzia. Gli studi procedono cosí fiacchi e mediocri che lo zio rettore risolve di rimandarlo a casa per qualche mese, a ritemprarsi. E finalmente Beppe ritorna a Pisa col sospirato permesso del pianoforte, la prima battaglia vinta: ché se non si giunge a concedergli un maestro di musica, come vorrebbe, pure si industria a esercitarsi da sé e del resto è già in grado, fra i tasti e la voce, di saziare quel bisogno di pura bellezza che lo tormenta e lo esalta. Si procura musica nuova, altra ne compone da sé, e cosí rasserenato attende agli studi, di latino, di greco, di filosofia, che segue senza sforzo e non senza successo, ma con la marcata indifferenza di chi ha il capo ad altre cose.
Collegio di preti, quello di Santa Caterina(96): preti insegnanti, preti prefetti, e obbligatorietà di un culto che è troppo esterno ed imposto perché possa conquidere i ragazzi.
D'altronde la continua convivenza con quegli ecclesiastici non giova a persuadere i convittori del carattere sacro della loro missione. Uno scetticismo, ora allegro e ora musone, che in particolare si manifesta in una tenace repugnanza alla confessione (intesa piú come sistema disciplinare che non come atto puramente religioso) e alle estenuanti pratiche di devozione si impadronisce di Beppe, come, del resto, dei piú fra i suoi compagni.
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