Con piú abbandono, con piú frequenza che a chiunque altro, scrive sempre al Centofanti, a Firenze, quando non sono insieme a Fucecchio, e a lui, sicuro della sua comprensione e della sua simpatia, traccia, di lettera in lettera, un quadro anche troppo minuto e fedele del mutevole suo stato d'animo e delle minime perturbazioni che valgono a modificarlo. Del resto è la gran moda, quella, intorno al '30: quasi tutti gli epistolari del tempo offrono una documentazione concorde della mania introspettiva che si è impadronita del ceto colto, contagiato dalle tendenze romantiche della letteratura corrente. Il che vale a dire che, nel piú dei casi, quegli epistolari sono tutt'altro che dilettevoli, a leggersi oggi: tanta è la ingenua sicurezza che anima gli scrittori di non aver proprio nulla di piú urgente da raccontare che le private vicende dell'io interiore, registrate col compiaciuto apparente distacco di chi osservi le fasi di un imponente fenomeno naturale. E non già, badiamo bene, raccontarle in sede di confidenza e d'espansione amorosa, lui a lei, e lei a lui, ma da uomo a uomo, con una serietà e una compunzione che, quando, ed è quello che accade piú spesso, non t'infastidiscono, ti fanno sorridere.
Ed ecco qui il Montanelli che, sulla fine del '30, fa parte al Centofanti della sua irrequietezza interiore, del suo spasimante desiderio d'amore, del palpito patriottico che tutto lo pervade. Ogni due righe una fila di punti esclamativi e una manciata di puntolini e da principio a fine un tono da febbricitante, che si estrinseca nelle concitate proteste d'eterna amicizia e in un perpetuo altalenare tra la compassione e l'orgoglio del proprio stato, il cui privilegio sembra essere la precocità del dolore.
| |
Centofanti Firenze Fucecchio Montanelli Centofanti
|