Vero è che l'esperienza dell'«Antologia», per quanto breve, gli era stata preziosa. Non invano si andava a scuola da quel maestro del buon senso, dell'equilibrio, del contenuto ardore, della disinteressata probità scientifica che si chiamava Viesseux.
Vent'anni piú tardi, riconoscente, lo scolaro illustre doverosamente scriveva:
Se Firenze un giorno vorrà temperare sulla piazza di Santa Trinità i funesti coi grati ricordi, inalzerà ivi, in nome della filosofia educatrice, un monumento alla operosità instancabile, perseverante e modesta del fondatore dell'«Antologia»(174).
L'«Antologia», del resto, non era stata la sola palestra aperta al Montanelli per dar le prime prove del suo ingegno. Già nell'estate del 1831, diciottenne, egli era venuto a Firenze per leggervi, nell'Imperiale e Reale Ateneo Italiano, due suoi discorsi: quelli stessi che, a quanto pare, attiraron su di lui l'attenzione dell'«Antologia»(175). Un ragazzo prodigioso in una assemblea di parrucconi: certo, dovette fare impressione. Tanto piú che questi due discorsi, subito dopo stampati, non avevano nulla a che fare con le solite, inutili e asfissianti comunicazioncelle erudite. Nel primo: Della morale e della critica considerate nei loro rispetti scambievoli, oltre alla chiara impostazione storica e filosofica, quel che piú c'interessa è la decisa professione di fede idealistica e romantica, antiutilitaria e antisensistica, del giovanissimo oratore.
... il fatto primitivo della morale è il bisogno della virtú; il fatto primitivo dell'Estetica è il bisogno della creazione dell'arte.
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