Aquarone se ne partí con le trombe nel sacco»; e quegli, il 22: «Non dubito che alla disperazione dell'Aquarone e degli altri non abbia contribuito il sapere che la loro condotta non era approvata qua»(263).
Se l'Aquarone se n'era partito con le trombe nel sacco, il Montanelli, dopo questo episodio, venne investito da una prima ondata di recriminazioni e di accuse. «Domani spero potremo trattare gli affari della Toscana - scriveva ad esempio il 28 giugno il Digny, - ed ho fiducia che presto gl'imbroglioni politici avranno una prova materiale che qui (a Torino) non si vuole per ausilio il disordine. Spero che presto vedrete rimettere il capo nel guscio guerrazziani, montanelliani ecc.»(264). E il Ricasoli, 5 luglio, al fratello Vincenzo, che lo aveva informato della imperiale disapprovazione al «pronunciamento» nazionale toscano: «Se il governo attuale non si fosse disegnato come ha fatto, oggi la Toscana sarebbe in mano di Guerrazzi e Montanelli»(265). Il Guerrazzi, per parte sua, difendeva il Montanelli in una lettera al Corsi:
Non so di M...; ch'ei si dolga è probabile, ma impedire alla vittima un lamento, e darlo ad intendere parricidio penso sia arte di quei nuovi Neroncini da 16 alla crazia, che vorrebbero anco essere adulati, e ringraziati. Che faccia opera cattiva, non lo posso credere: infermo e non giovane va a offrire il suo sangue: altro non può: sarebbe anco questo un tradimento alla Indipendenza?(266)
Tito Menichetti, che a quel tempo era ancora grande amico del Montanelli, rispondendo ad una sua lettera, affermava l'8 di luglio, che essa gli era giunta tanto piú opportuna e gradita in quanto «in quel momento alcuni amici tuoi (!) ti facevano la lunga mano di certi rigiri antinazionali.
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