Lontano, materialmente e, piú, spiritualmente da quel focolaio d'intrighi, sereno nella sua coscienza, il Montanelli si era trasferito frattanto, come già abbiamo detto, da Alessandria a Piacenza(270). Certo, non era quella la guerra, la guerra combattuta che aveva sognato e cui si era consacrato! La vita delle retrovie lo esasperava: se aveva rinunziato con immenso suo sacrificio, non solo sentimentale, a ritornare in Toscana(271), non lo aveva fatto davvero per seguire a quel modo, a rispettosa distanza, l'avanzante corpo d'operazioni. Giorno per giorno promettevano ai Cacciatori una prossima partenza pel fronte, ma intanto le settimane passavano, battaglie gloriose e decisive si susseguivano senza che quella promessa venisse mai mantenuta: in Italia, e anche in Francia, si sorrideva dei compiti «turistici» affidati alle truppe toscane...(272). Il 21 di giugno, da Piacenza, il Montanelli scongiurava il Pallavicino, a Torino, d'interporsi perché i Cacciatori venissero finalmente riuniti all'esercito operante: «t'assicuro - scriveva - ... che urge prendere una risoluzione. Questi giovani si sentono umiliati di non avere avuto il battesimo del fuoco. Il primo e il secondo battaglione sono in ordine»(273). Il giorno appresso, sempre a Piacenza, ebbero luogo le esequie di un volontario livornese, Giovanni Seteri, prosaicamente morto di malattia: nelle frementi parole pronunziate dal Montanelli sul feretro del suo compagno chi non sentí l'anelito verso quell'altra morte che già aveva sfiorato l'oratore nel '48, la morte gloriosa sul campo?
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