»(309). Chi sa. Diversi mesi piú tardi, invero, il Bianchi affermò che quel 16 luglio il Montanelli «era con noi», in altri termini che conveniva in pieno col programma del governo di Firenze, il quale «persisteva, quanto era in lui, nella sua politica unitaria»(310). Ma che significava «politica unitaria»? Si poteva benissimo essere annessionisti-unitari, come antiannessionisti-unitari. Del resto, col propugnare apertamente il suo piano di una lega fra gli Stati dell'Italia centrale (quella lega che il Ricasoli, per parte sua, vide sempre di mal occhio), il Montanelli, ci sembra, chiariva abbastanza quali fossero, al proposito, le sue vedute politiche. Sarebbe assurdo presumere, d'altra parte, che, mentre gli risuonava ancora nell'orecchio quell'«impossibile» dell'imperatore, egli s'impegnasse col Bianchi nel senso annessionistico.
No: il Montanelli si limitò ad offrire, quali che fossero, i suoi servigi; e la prova indiscutibile l'abbiamo proprio nella lettera che, probabilmente dietro invito del Bianchi, egli ebbe a scrivere, il 17 luglio, al Ricasoli: nella quale invano si cercherebbe una professione di fede annessionistica. Essa(311) non conteneva, in realtà, che una cavalleresca quanto generica raccomandazione della causa italiana al capo del ministero toscano, unitamente ad una esplicita presa di posizione contro quelle restaurazioni, che (bisogna pur ricordarlo) uomini come il Lamarmora, successore del Cavour, come il Minghetti, il Rattazzi e il Desambrois, primo plenipotenziario sardo al convocato Congresso, stimavano e dichiaravano in quei giorni difficilmente evitabili(312). Sulle annessioni, «ne quidem verbum»!
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