Altro che «riconciliazioni con tutti o quasi tutti gli antichi amici» come, per parte sua, ebbe a scrivere il Cambray-Digny!(325).
Moltissime, e di tutti i partiti, furono le personalità politiche che si affrettarono a visitarlo, tanto che quasi subito egli si trovò nel bel mezzo degli affari toscani, adesso particolarmente agitati per l'imminenza delle elezioni dell'assemblea: autonomisti piú o meno lorenesi in cuor loro, fautori di un regno separato dell'Italia centrale, napoleonisti(326), annessionisti, sostenitori di una candidatura sabauda indipendente, malcontenti e intriganti. «Non citerò le molte persone che appena arrivato in Firenze vennero a trovarmi... e mi parlarono nello stesso senso della lettera menichettiana», scrisse piú tardi il Montanelli stesso(327); e il Redi: «Gli davano pensiero i popolani del Dolfi i quali chiedevano con insistenza la fusione al Piemonte..., avendo (egli) preso impegno di fare della Toscana il centro egemonico della futura unità»(328). Celestino Bianchi non fu degli ultimi a visitarlo; ma ormai le loro vie divergevano: «Non entrerò in molti particolari sul nostro colloquio - cosí il segretario generale del governo toscano, quando, nel gennaio del '61, gli stava a cuore di «silurare» la candidatura del Montanelli al Parlamento nazionale(329) -: dirò solo che lasciandomi conchiuse dicendo: bisogna persuadersi che l'idea dell'unità era un bel sogno al quale è forza rinunziare. Non c'è che una volontà in Europa che sia rispettata; non c'è che una parola che sia ascoltata: quella dell'imperatore dei Francesi: la Toscana ormai nella sua mente è destinata: sapete a chi: bisogna piegare la testa.
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