E forse non era vero; ma quel pensiero lo aiutava a vivere, ad aspettare. Nell'imagine del borgo nativo - un poco assopito nella sua storia illustre - gli si concretava, quasi, l'imagine stessa della patria da resuscitare. Pensava all'Italia e vedeva Fucecchio. E come sovente, coi Michelet, coi Lamennais, coi Du Camps non gli accadeva, dimenticando per un istante letteratura o politica, di parlar di Fucecchio, come fosse stata la città di Dio, a fronte di quel prodigio tutto razionale, Parigi!
Venne il '59. Venne il ritorno. E la tentazione tante volte avvertita, negli anni d'esilio, di andarsene a rimirare l'Italia rinata o rinascente procul negotiis, da quel sereno cantuccio provinciale, dove gli sarebbe stato cosí dolce recuperare la sanità perduta, la sanità del corpo, e piú, quella dello spirito troppo provato dalla ingratitudine umana; la tentazione egoistica non visse, già s'intende, un istante. Fu il campo dei volontari prima, furono poi le corse affannose a Torino, a Firenze, e di nuovo a Parigi, e a Pisa: a Fucecchio appena qualche comparsa fuggevole, per ritrovarvi la lena, appena il tempo di spalancar le finestre di quella bella sua casa, là in cima al paese, per contemplare la sottostante valle verdissima e poi ripartire. Chi avrebbe mai potuto prevedere che quel ritorno in Italia avrebbe coinciso col periodo piú triste della sua vita? Che lo avrebbero perfino tacciato, perché non voleva l'unità al modo di tutti, di non amare il suo paese? Che lo avrebbero escluso dal parlamento, dove sognava di rappresentare Fucecchio?
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