E venne, tre anni dopo, un giorno d'aprile in cui il Montanelli, precocemente vecchio, febbricitante, velato di mestizia quel suo sguardo splendente, tornò per sempre a Fucecchio. Moriva ogni giorno, e non sapevan di che; ma lo sentiva anche lui e, pur religioso com'era, non poteva darsene pace. C'era tanto da fare, in Italia, per un uomo della sua tempra! Tanti problemi urgevano, che gli pareva avrebbe saputo risolvere. Guardava dalla sua poltrona quei monti, quei colli, quei campi fervidi d'opere, e non voleva credere che avrebbe dovuto ben presto lasciarli per sempre. Nella stanza s'ammonticchiavano le carte su cui, con quella scrittura chiara e ordinata dapprima, poi sempre piú precipitosa e arruffata via via che premevan le idee nell'ansia di non finire, sudava affrontando le grandi questioni del giorno e dell'avvenire, abbozzando discorsi e articoli, e disegnando ampi studi metodici sull'ordinamento della nazione italiana. Quell'ordinamento, pensava, cui solo l'esperto della sua storia nei secoli e il conoscitore profondo delle tendenze vive del suo popolo sarebbe mai pervenuto.
Fucecchio, fiera d'averlo finalmente per sé, questo suo figlio illustre, e insieme rispettosa di quel privilegio, lo circondava di reverente silenzio.
Morí, non rassegnato, ai 17 giugno: né piú di lui rassegnati i fucecchiesi tutti, che come una grande famiglia avevano diviso e sofferto, senza comprenderle, le sue amarezze: mormoravano adesso che gli avversari suoi lo avessero fatto morir di veleno, e diffidavano quasi di quelle stesse manifestazioni d'omaggio che alla sua memoria si largivan di fuori; anticipavano con appassionato rancore il giorno in cui, crollati i falsi idoli, il Montanelli, inquieto nella sua tomba laggiú nel chiostro dei frati, avrebbe avuto pace con la vendetta di una piena riabilitazione.
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