A me preme soltanto rettificare talune circostanze addotte dal Leti, sí che il giudizio non abbia a fondarsi su dati in parte inesatti.
«Cernuschista» ad oltranza - come ci conferma il bel volume da lui recentemente pubblicato: Henri Cernuschi, patriote, financier, philanthrope, apôtre du bimétallisme. Sa vie, sa doctrine, ses œuvres, Paris 1936 - il Leti non si è mostrato, infatti, del tutto equo nei suoi apprezzamenti sul Montanelli: cedendo anch'egli inconsciamente alla forza di quella tenacissima leggenda antimontanelliana, che purtroppo è tuttora avvalorata da molti studiosi del Risorgimento italiano. Tra il Montanelli e il Cernuschi, rimasto l'uno a Parigi, nel '59, comodamente assiso nella sua poltrona di spettatore e di critico delle vicende italiane, e l'altro partitone precipitosamente per arruolarsi volontario e poi per gettarsi a capofitto nell'aspra lotta politica seguita alla guerra, fra i due sarà facile dire, di certo, che il secondo salvò appieno la sua coerenza ideale e la sua intransigenza politica, mentre al primo fu giuocoforza adattarsi a piú di un compromesso e abbandonare per via piú d'uno dei suoi postulati. Sarebbe ingiusto, peraltro, e antistorico, non rendersi conto di come l'atteggiamento del Cernuschi, pur altamente rispettabile, presupponesse un notevole distacco dalle cose italiane, l'assenza cioè di quella disperata volontà di contribuire a risolver una volta per sempre ed a qualunque costo il problema italiano, la quale ben vale a giustificare le oscillazioni e le evoluzioni imputabili a presso che tutti i patrioti italiani nel decennio successivo alle delusioni del '49. Cernuschi salva la sua coerenza, ma si strania definitivamente all'Italia, almeno in quanto a concreta azione politica; Montanelli agisce, lotta, s'impegna, si piega ad ogni sacrificio, pur di collaborare anch'esso alla grande fatica finale.
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