Cernuschi può scrivere, tranquillamente: «Per noi non c'è nulla da fare: abbiamo aspettato dieci anni, ne aspetteremo dieci altri»; Montanelli invece affronta la realtà qual'è per acquistare il diritto di concorrere a modificarla: «Tornare in esiglio non me la sento!», risponde con ingenuo abbandono. Sí, l'Italia si va facendo per vie e con mete in parte diverse da quelle da lui auspicate; ma è pur sempre l'Italia degli Italiani, che nasce, e ci vuole una bella dose di astrattismo politico per non cedere alla potente suggestione che emana dai campi lombardi, per non sentire che in taluni solenni momenti della vita nazionale ogni assenza è una colpa.
Le tre lettere del Montanelli al Cernuschi pubblicate dal Leti vanno dunque valutate sotto questo angolo visuale: e allora cadranno da sé i commenti poco benevoli con i quali egli ha creduto di doverle accompagnare. Altre sue notazioni si debbono, per contro, a non perfetta conoscenza dell'argomento: cosí l'accenno alla diffidenza nutrita dal Gioberti pel Montanelli, esattissimo se riferito al '49-50, ma non per i due anni seguenti, nei quali i due patrioti riallacciarono e anzi intensificarono le antiche e tanto proficue relazioni di mutua stima ed amicizia; cosí la notizia che il Montanelli sarebbe rientrato in Italia nel '58, mentre non ripassò le Alpi che allo scoppio della guerra, nell'aprile dell'anno seguente; cosí l'affermazione, grave e infondata, essere stato il Poniatowski (quello stesso che poco dopo doveva screditarsi nello sterile tentativo di rappattumare i toscani con l'esule granduca) a porre in contatto il Montanelli con Napoleone III, mentre è risaputo che intermediari furono i due còrsi Pietri e Rapetti (a questo proposito voglia il Leti notare che mentre la prima lettera del Montanelli al Cernuschi non può certo recar la data di Firenze, dove il Montanelli non si recò che alla fine di luglio, la seconda dev'essere del 26 e non del 23 di maggio, giacché venne scritta all'indomani del colloquio con l'imperatore, svoltosi, appunto, il 25 di quel mese). Quanto poi al deprecato «feticismo» del Montanelli, per le cose e gli uomini di Francia, mi permetta l'egregio Leti di definire alquanto sommaria e frettolosa la sua sentenza, calcata piuttosto su partigiani giudizi emessi nel calore dell'azione da avversari politici del Montanelli, che non su un pacato riesame dell'effettiva attività da lui svolta: senonché, volendo risparmiare al lettore una non breve dissertazione su questo punto, mi limiterò a rinviare il Leti al citato mio articolo, primo saggio di una completa biografia critica che sul Montanelli io vado preparando.
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