Oh, invano il popolo domanda «pane e lavoro» (ivi, 1° agosto 1864).
Ma hanno scritto: «Finché la dura!» Perché il povero lavoratore «che si tronca la schiena col lavoro per mangiare un tozzo di pane ammuffito, che si logora insomma la vita per provvedere agli agi ed al lusso del milionario», finirà, alla prima occasione, per «migliorar la propria posizione mediante un delitto» (ivi, 11 novembre 1864).
Il momento della rivolta non può essere lontano. È logico che giunga e che giunga presto: la società, «infiammata dalle moderne dottrine, partorirà un'ira di comunismo che già, come cane alla catena voi sentite latrare» («La Giovane Italia», p. 81). E ben venga dunque.
Ah, sospirano i clericali, se il popolo conoscesse la sua potenza e se ne sapesse servire! «Non sarebbe tanto spesso calpestato, deriso e ingannato» («La Vespa», 23 agosto 1864).
Parole di questo genere venivano, non dirò a determinare, ma a rinforzare e a giustificare, nei nostri operai, il nascente sentimento d'odio contro gli abbienti, ad aumentare la loro diffidenza contro gli agitatori politici i quali pretendevano ancora il loro aiuto per disegni rivoluzionari di carattere politico, dando a sperare in conseguenti miglioramenti economici.
Ciò non significa che i clericali tendessero, come ultimo fine, a scatenare la guerra di classe. Ché anzi, essi sognavano la restaurazione degli antichi cristianissimi regimi nei quali di questione sociale non si ragionava neppure, o la si considerava tutt'al piú come un affare di beneficenza; infatti - si legge nel citato opuscolo L'Italia disfatta, ecc., p. 11 - «quando un popolo trova ne' mercati come provvedere alla vita, né il prezzo di generi che abbisognano alla sua sussistenza è lasciato all'arbitrio di pochi monopolisti ed incettatori, questo popolo benedice sempre al principe che lo regge».
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