Dire: io sono repubblicano e basta, sarà dire assai poco, equivarrà cioè a esprimere una quanto mai generica fede democratica.
Di necessità dunque, a parer mio, si giungerà o prima o poi a un connubio tra socialisti e repubblicani, o meglio tra socialisti e una frazione di repubblicani; connubio che non avrà niente di transeunte, niente di opportunistico; che non si opererà cioè in vista della formazione di un provvisorio fronte unico di battaglia.
Ma sono andato fuor di strada, ché il mio intento è solamente quello di riandare le vicende e studiare le relazioni corse tra repubblicani e socialisti negli ultimi sessant'anni.
Di propaganda socialista in Italia non si principiò a parlare prima del 1865: il partito repubblicano era allora forte e combattivo; era il piú intransigente dei partiti d'opposizione e, per quanto disposto a compromessi e a transazioni, il piú sinistro; era, in una parola, il partito sovversivo. Socialismo era parola vaga, mal compresa dai piú, usata a designare correnti in Italia ancora di là da venire, da qualche scrittore politico: fra i quali, deplorandola, se ne serviva Mazzini. C'era un modesto movimento operaio, conteso fra democratici moderati e repubblicani, che si limitava a raccogliere élites di lavoratori nelle fila del mutuo soccorso, a convocare di quando in quando i loro rappresentanti a congresso, a pubblicare giornaletti popolari, a fondare e a incoraggiare le società cooperative. Qua e là, nei centri industriali, v'eran gruppi di operai che stavan scoprendo l'arma della resistenza e principiavano a proclamare con crescente frequenza gli scioperi - spontanei perché non suggeriti da alcun partito politico.
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