È bene anzi che essi non tentino di ribellarsi al ruolo che loro impone la dialettica storica. Perderebbero il loro tempo e ritarderebbero i futuri svolgimenti.
Il proletariato, dal suo canto, non può accusare il capitalismo in linea morale e giuridica. Morale e diritto sono categorie storiche, puri riflessi delle correlative strutture economiche. I capitalisti hanno le carte in regola con la morale e il diritto propri dell’era capitalistica. Se sfruttano i proletari, cioè se pagano loro solo una frazione del valore che producono, non fanno che obbedire alle «leggi immanenti» di scambio in regime capitalistico. Per essere a posto coi principî economici, giuridici e morali del capitalismo il capitalista non ha che da fornire al salariato i mezzi – in moneta – per vivere e riprodursi. Se si comportasse diversamente egli verrebbe meno alla sua funzione sociale di «fanatico agente dell’accumulazione». Il lavoratore non può protestare. Se egli perde il soprappiú di valore che il lavoro umano – e solo esso – ha la virtú di produrre, lo perde per una necessità storica inderogabile. Il profitto è altrettanto naturale, in questa fase storica, quanto il macchinismo, la divisione del lavoro, il sistema di fabbrica, il salariato, il mercato mondiale, le crisi... I borghesi, scrive sempre Marx, hanno perfettamente ragione di sostenere che l’odierna ripartizione è «giusta», perché in realtà «essa è l’unica “giusta” ripartizione sulla base della odierna forma di produzione».
Non a torto si definí il Capitale la piú intransigente apologia del Capitalismo!
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