Essere marxisti era come appartenere a un’altra razza, alla razza eletta per la quale il mistero della vita era squarciato. L’umanità si trovava ancora avvolta nelle nebbie delle false ideologie bandite da falsi pastori per interesse di classe, ignara del suo essere e del suo avvenire. Solo il marxista vedeva chiaro nel passato e nel presente, ed era in grado, per la conoscenza che aveva delle leggi di sviluppo della società capitalistica, di sollecitare razionalmente l’avvento dei tempi nuovi. Il marxismo era come una seconda coscienza, ma una coscienza tutta critica, lucida, razionale, che affidava con matematica certezza della bontà e dell’inevitabile trionfo dell’ideale socialista. Il marxismo trionfava non tanto per gli intrinseci contributi recati alla conoscenza del mondo capitalistico, quanto per la sicurezza che riusciva a instillare nei militanti della natura razionale della loro fede e per il suo appello a quel metodo positivo allora tanto in onore.
Tutto in Marx e nell’opera di Marx congiurava a questo fine: l’estrema difficoltà di penetrare i suoi scritti, la mancanza di un’opera sistematica e riassuntiva, la sua cultura ad un tempo enciclopedica ed aristocratica, il suo stile apodittico ed astruso, la misteriosità della vita, il lungo esilio, ma soprattutto la coscienza che egli aveva, ad un grado senza precedenti, della propria grandezza e della verità inconfutabile della propria dottrina. Basta rileggere il Manifesto, uno dei piú potenti pamphlets della storia, per comprendere le ragioni della sua immensa fortuna.
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