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      I quali, a cominciare da Marx, che quasi lo ignorò, hanno sempre diffidato un poco del movimento sindacale. Nel sistema marxista la sfera di azione utile assegnata al sindacato è ristrettissima e vale solo per i suoi riflessi politici. In tutta Europa, esclusa l’Inghilterra dove il partito sorse come espressione politica delle Trade-Unions, si verificò sin dagli inizi un contrasto tra partiti e sindacati, a spese apparentemente del moto sindacale che si volle subordinare al partito, ma in realtà a tutto danno dei partiti che si videro costretti a conciliare l’inconciliabile: cioè il momento pratico col teoretico, il semplicismo messianico del loro programma finalistico con le concrete rivendicazioni sindacali, la tattica rivoluzionaria e la pratica intransigente della lotta di classe, con i quotidiani fenomeni di transazione e di collaborazione dei sindacati. In nome dei fini ultimi i partiti socialisti si vedevano costretti a intervenire a favore di modeste frazioni operaie o di rivendicazioni di dettaglio, compromettendo la loro purezza rivoluzionaria per una indefinita serie di piatti di lenticchie. Ma non v’era possibilità di scelta. La marea proletaria, cadute le dighe reazionarie, era salita incontenibile, invadendo territori sconosciuti, abbattendo muraglie teoretiche, superando tutti gli ostacoli logici, i non possumus, le scomuniche e i sinaistici bagliori del Manifesto. O accompagnare questo moto, sacrificando le formule, o restarne travolti. Saggiamente anche i marxisti piú intransigenti si appigliarono al primo corno del dilemma, salvo nascondere nell’equivoco verbale la resa avvenuta.


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Socialismo liberale
di Carlo Rosselli
pagine 184

   





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