Il proletariato, dopo il sorgere del moto sindacale e cooperativo e la conquista delle libertà politiche, sente sempre piú chiaramente che non è piú vero che abbia tutto da guadagnare e nulla da perdere da una catastrofe sociale. Specie nei paesi piú progrediti esso sa di essersi assicurato un tenore di vita e un complesso di istituti e di diritti che si conservano solo preservando l’organismo sociale da scosse violente e soprattutto mantenendo immutato il livello di produttività e il ritmo del progresso.
È, in una parola, il capovolgimento della posizione marxista, ciò che gli estremisti chiamano la «degenerazione» riformistica dei sindacati. Ma è una «degenerazione» che dura da piú di mezzo secolo, che si accentua ogni anno che passa, una «degenerazione» con la quale ormai sono costretti a fare i conti i piú puritani.
A questa decisa deviazione nella sfera pratica ne corrispose un’altra in sede ideologica. Il blocco dottrinale marxista che era rimasto saldissimo sotto la furia delle persecuzioni, rivelò ben presto, in una atmosfera di libera critica, profondissime crepe. Sorgeva il revisionismo, commento critico di tutta la nuova imponente fenomenologia.
Il revisionismo.
Il revisionismo, piú che sforzo sistematico di critica e di integrazione del marxismo ad opera di una corrente solidale di scrittori, deve considerarsi come la protesta, variamente atteggiata e motivata, della nuova generazione socialista contro il piatto conformismo dei marxisti puri incapaci di adattare la teoria alla nuova prassi operaia e di concepire un socialismo non strettamente legato alla posizione materialista in filosofia.
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