Il bilancio lo fecero gli ortodossi e specialmente gli scrittori borghesi: ed era un bilancio quasi fallimentare. Per rendersi conto della gravità della frana basterà fare un cenno sommario della posizione che vennero assumendo intorno al ’900 i due piú tipici esponenti del movimento revisionistico: Bernstein e Sorel.
Bernstein iniziava il suo libro famoso (Die Voraussetzungen des Sozialismus) dichiarando di condividere le premesse filosofiche del marxismo e rivendicandone il carattere altamente scientifico. Suo scopo era solo quello di «chiarirne» ed «allargarne» la portata, fondando su basi infrangibili i principî della nuova scienza socialista. In questa scienza marxista distingueva una parte pura, intangibile – il materialismo storico – da una parte applicata, la quale invece era suscettibile di modificazioni senza danno ai principî. Quando però passò alla determinazione di questa parte pura cominciarono i guai. Col pretesto che Marx era stato talvolta tradito dall’espressione e che, come tutti i novatori, aveva esposto in modo troppo unilaterale la nuova teoria, la adulterò siffattamente da renderla irriconoscibile. Bernstein ad esempio affermava «la necessità di rendere piena ragione, accanto alle forze e ai rapporti produttivi, alle idee di diritto e di morale, alle tradizioni storiche e religiose, agli influssi geografici, a quelli della natura e del tempo in cui rientrano» – si noti l’abilità di questa inclusione in sordina – «la natura e le tendenze spirituali dell’uomo». Sosteneva inoltre che nella società moderna va ognora crescendo la capacità di guidare lo sviluppo economico, appunto per la maggiore conoscenza che abbiamo di questo sviluppo; cosí che individui e gruppi riescono a sottrarre una parte sempre maggiore della loro esistenza all’influsso di una necessità affermantesi contro o senza il loro volere.
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