La socialdemocrazia, diceva Bernstein in conclusione, dovrà preoccuparsi piú dei compiti prossimi che dei fini ultimi; i quali fini ultimi – conquista del potere politico, espropriazione dei capitalisti – non sono per nulla fini ultimi, ma semplici mezzi per il conseguimento di determinate mete e aspirazioni. La nuova formula è: il moto è tutto, il fine è nulla. «Occorre – egli scriveva – che la socialdemocrazia abbia il coraggio di emanciparsi dalla fraseologia del passato per voler apparire ciò che essa è in realtà: un partito di riforme democratiche e socialiste».
Questo per il revisionismo di destra. V’era poi – anche se meno profondo e originale – un revisionismo di sinistra. Insomma il marxismo come sistema organico, dal significato categorico e univoco, era finito. Ormai molteplici correnti politiche e culturali potevano legittimamente richiamarsi a Marx; l’attributo «marxista» si faceva sempre piú generico e vago. Deterministi e volontaristi, riformisti e rivoluzionari, si contendono aspramente l’eredità del Maestro. Piú accessibili allo stretto determinismo gli economisti; piú disposti alle tesi volontaristiche i filosofi e gli agitatori.
Marxista Loria, marxista Sorel; marxista Lenin, marxista Turati, marxista il politico che addita nella teoria della lotta di classe il contributo essenziale, marxista lo storico e il sociologo che accetta il materialismo storico spoglio d’ogni connessione con la fede nell’avvento socialista. Per gli uni si tratta di una concezione che illumina di nuova luce tutti i lati della speculazione umana, dando vita a una filosofia, una economia, una storia, un diritto, una estetica.
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