La fantasia, sollecitata dalle sciabole e dalle manette durante la duplice reazione di Crispi e di Pelloux (’94, ’98), precipitò naturalmente agli estremi del mito, al sogno di una trasformazione apocalittica nel breve spazio di una generazione. Era, se si vuole, un marxismo spurio, codesto; ma la degenerazione, se vi fu, non fu certo nel senso di una maggiore elasticità ed indulgenza nell’applicazione; ché anzi si basò gran parte della propaganda sul tallone d’Achille del sistema, il catastrofismo. Ciò che colpiva le menti non era la nota relativistica, storicista; bensí l’aspetto messianico, la certezza nel rapido inevitabile trapasso. Anche il Turati accedette sin verso il ’98 a questa visione schematica e ingenua; e quando poi tentò di placare tanto ardore di illusioni, si trovò ad urtare contro la incrostazione pseudoteoretica e la messianica attesa che egli stesso, in perfetta buona fede, aveva concorso a creare.
La crisi del ’900, dopo la uccisione di re Umberto, pose fine drammaticamente a un eccezionale stato di tensione che assai aveva contribuito ad alimentare l’assolutezza del mito. L’orizzonte che pareva chiuso, si squarciò; il moto operaio, sino allora compresso e perseguitato, ricevette, col memorando sciopero di Genova, consacrazione quasi ufficiale; le libertà politiche parvero definitivamente assicurate. Dal 1900 sin verso il 1904 si assiste in Italia a un dilagare di agitazioni e di scioperi, mentre una febbre di vita invade il paese. Le orribili condizioni di esistenza dei lavoratori grandemente migliorano, una nuova coscienza sorge in ceti sino allora abbrutiti, parlamenti e comuni si aprono alle nuove forze prementi, la borghesia si mostra sensibile alle esigenze dei tempi.
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