Per passare infatti dalla teoria del rovesciamento della prassi alla prassi... immobile della società socialista, i socialisti revisionisti debbono rinnegare se stessi accedendo a quel determinismo economico volgare e a quella estrema semplificazione di diagnosi sociologica contro cui giustamente avevano reagito. Cioè debbono a) ricondurre tutte le contraddizioni sociali a quell’unica tra sistema di produzione e sistema di appropriazione; b) imporre un ruolo obbligato alla volontà umana; c) fissare una direzione categorica all’evoluzione produttiva; d) postulare uno stato sociale statico e perfetto.
Vale a dire debbono rinnegare quella visione dialettica della storia – indefinita serie di lotte, non solo e sempre di classi, e non solo e sempre economiche – che è alla base della loro revisione e che, anche per Marx-Engels, è l’unica legge a priori della storia. Cioè negare la storia stessa.
In verità al marxismo dei revisionisti ripugna ogni preciso elemento finalistico; o meglio, dalla loro posizione teoretica non discende alcuna conseguenza pro o contro il socialismo. Si può accettare la storia come eterno contrasto di classi, e ammettere una pluralità di sbocchi o addirittura non considerare la funzione borghese come funzione di sola conservazione. Per una conclusione socialista si richiede l’intervento di dati empirici (catastrofismo marxista) o di un elemento di fede. D’altronde occorre tener presente che nella dialettica storica il momento della tesi non è meno importante di quello dell’antitesi; anzi l’uno non è pensabile senza l’altro.
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Marx-Engels
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