Quand’anche fossimo riusciti a dimostrare in modo categorico che il revisionismo ha rotto il legame logico tra socialismo e marxismo, vi sarà pur sempre chi, attraverso esegesi abili e sapienti, tenterà di sostenere il contrario. Ma la rude smentita è venuta invece dalla pratica, dalla progressiva erosione di due miti che stanno alla base di tutta la propaganda marxista e che ne hanno costituito la ragione massima di successo: 1) il comunismo imposto da una inderogabile necessità del sistema produttivo, conclusione fatale delle contraddizioni e delle crisi che minano l’organismo capitalistico; 2) il comunismo considerato come il solo assetto sociale capace di assicurare, per il suo razionale ordinamento produttivo e distributivo, un immenso aumento di produttività e di benessere, sottraendo l’umanità alla schiavitú dei bisogni materiali.
Il primo mito è stato fortemente intaccato dalle profonde trasformazioni subite dal capitalismo dai tempi di Marx ai giorni nostri. Il secondo dall’accumularsi di una serie grandiosa di esperienze operaie in sede economica e politica. La razionalizzazione capitalista, da un lato, e la esperienza russa dall’altro, non hanno fatto che accentuarne l’erosione.
Cominciamo dal primo.
Marx aveva fissato nelle sue opere una fase tipica dello sviluppo capitalistico: la fase anarchica ed esplosiva degli inizi, come si disegna in Inghilterra: con l’individualismo sfrenato, la libera concorrenza, il feroce sfruttamento della manodopera. In questa fase la produzione è terribilmente sregolata, il sistema di fabbrica funziona con sprechi e attriti enormi, a prezzo di sofferenze inenarrabili delle masse spogliate violentemente dei loro mestieri e strumenti di lavoro, ridotte al rango di merce, vittime delle crisi economiche ricorrenti e di una disoccupazione che appare una necessità funzionale del capitalismo.
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