La produttività raggiunta da molte imprese americane o germaniche è tale che difficilmente è concepibile possa superarsi con forme statali o collettivistiche di gestione. Si pensi ad esempio ad una socializzazione brusca dell’industria chimica tedesca. Il massimo sperabile da una socializzazione sarà di poter mantenere inalterato il livello della produzione e il ritmo del progresso. I salari operai beneficierebbero solo di quella parte del profitto che non viene reimpiegata nell’industria e che si dirige a consumi voluttuari.
Certamente questo processo di riorganizzazione cui è stata costretta la grande industria capitalistica conferma la acutezza di molte critiche marxistiche, e in genere di tutte le scuole riformatrici del secolo scorso, al regime anarchico della concorrenza, e rappresenta un notevole passo verso una produzione razionale non piú dominata dal cieco egoismo di una infima minoranza; ma appunto perciò è fatale che perdano in efficacia ed attualità le adusate requisitorie di Marx, al pari della sua concezione del moto socialista che da quella anarchia capitalista, dichiarata inguaribile, prendeva le mosse. Le stesse esperienze della guerra e del dopoguerra hanno capovolto le previsioni marxiste. La rivoluzione sociale è scoppiata nel paese piú arretrato, la Russia; mentre il paese piú progredito, gli Stati Uniti, superava la crisi col minimo di scosse. Altro esempio, l’Inghilterra: da dieci anni un decimo della sua popolazione lavoratrice è disoccupata. Fenomeno mostruoso, che ai tempi di Marx avrebbe provocato il caos sociale, o un tentativo di rivoluzione espropriatrice.
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