Anche per i socialisti le formule semplicistiche, le ricette univoche e miracolose che dovevano fornire il segreto dell’avvenire, hanno fatto il loro tempo. Ormai sono molti i socialisti che concedono che solo per grandissime linee si può fissare la meta, anzi una meta, una tappa; che occorre adattarsi alle circostanze e a un mondo in continua vertiginosa trasformazione; che è necessario adeguarsi all’esperienza, tenendo presenti solo alcuni punti saldi di orientamento; perché solo dal moto, dalla esperienza liberamente attuata, scaturiranno le indicazioni per il domani.
Le esperienze della guerra e del dopoguerra – la russa in specie – hanno condotto all’abbandono del vecchio programma accentratore, collettivista, che faceva dello Stato l’amministratore, il gerente universale, il controllore dei diritti e delle libertà universali. Non si pensa piú, come un tempo, che il semplice fatto della espropriazione, il passaggio delle attività produttive alla collettività, determinerà una trasformazione apocalittica – produzione e ricchezza moltiplicate, lavoro ridotto e reso gioioso, l’uomo libero alfine dalla schiavitú della materia, soppresse automaticamente le lotte, le classi, le guerre; trionfanti la fratellanza, la giustizia, la pace...
Per i socialisti seri, colti, preparati – dirò di piú: per tutta la élite dirigente – coteste sono ormai favolette delle quali è piú igienico non parlare. A tutti appaiono, oltretutto, chiari, i pericoli della elefantiasi burocratica, della invadenza statale, della dittatura dell’incompetenza, dello schiacciamento d’ogni autonomia e libertà individuale, del venir meno dello stimolo nei dirigenti come negli esecutori.
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