Non avrebbe quindi dovuto meravigliarsi che le nuove couches giovanili socialiste evolvessero in rapporto ai tempi. Ma no. Si trasportò in sede culturale lo stesso abito dogmatico che si portava in politica, e si pretese d’esser giunti in filosofia a verità assolute, definitive, senza possibilità di ritorni e di contraddizioni. La dialettica, tanto celebrata nel moto sociale, si negò nel mondo delle idee, o vi si rimbalzò in una forma meccanica. Il socialista doveva essere e non poteva che essere, positivista! L’idealismo e lo spiritualismo erano degenerazioni «borghesi»!
Ebbene, bisogna che i socialisti, vecchi e nuovi, si convincano che alcune posizioni dello spirito umano, per contraddittorie che siano, sono insuperabili, eterne come il pensiero, connaturate alla nostra intelligenza, e sfuggono a ogni e qualsiasi rapporto di classe. Non è vero che il socialismo stia in una relazione necessaria con le filosofie materialistiche e positiviste. È ridicolo pensare che verrà giorno in cui gli uomini, concordi sui massimi problemi della vita e dell’essere, abbatteranno religioni e metafisiche per vivere solo e sempre nel regno dell’esperienza sensibile. Quel giorno, che per fortuna non verrà mai, sarebbe un gran brutto giorno. Da che mondo è mondo, questa varietà, questo alternarsi, questo perenne procedere per contraddizioni e per sintesi, è sempre esistito, e non c’è uomo non volgare che non l’abbia provato in se medesimo.
I socialisti troppo audacemente trasportano in sede culturale e spirituale la terminologia politica e le divisioni di classe.
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