Un giorno che si stava innanzi al ritratto del dott. Macchi, di colui che visse in povertà quasi d'accattone per lasciar all'ospedale tutto quanto ebbe dal padre e raccolse dalla sua professione di notajo, dopo averci narrati molti particolari di quell'uomo, che peccò d'avarizia in vita, per essere insigne benefattore in morte, d'improvviso soprastette dicendo: «Vi ricordate di quel tale che la prima domenica di quaresima abbiamo veduto nel carrozzino di gala sulle mura di porta Orientale, e di cui abbiamo tenuto alcuna parola? - Ebbene, questo notajo fu quegli che scrisse la minuta di un testamento che doveva esser trascritto da uno zio del padre del padre di quel signore». Del quale pronunciò il nome che noi non ripeteremo; chè molti dei personaggi che faranno parte della nostra epopea in veste da camera, hanno l'obbligo di costituire una società anonima.
Quando il novantenne vegliardo levò gli occhi dal ritratto del dottor Macchi: «Se verrete da me, soggiunse, fra qualche giorno, vi racconterà un fatto stranissimo, il quale, se può interessare la curiosità degli oziosi da caffè, può interessare il filosofo che spasima d'affanno per i mali che l'uomo ha inventati onde tormentare sè stesso; e può battere alla porta della giustizia e illuminarla, e illuminar persino la sapienza legale».
Ma qui ci conviene lasciare il nostro decrepito amico, che tante volte accompagnammo a veder l'Arco della Pace e a far il giro de' bastioni; e poi, in più angusto cerchio, e sotto i tigli de' pubblici giardini, abbiam sostenuto del braccio quando non poteva più soddisfare al suo orgoglio di camminare isolato; e soltanto continuava a dispiegarci lo sterminato volume contenente uomini e cose vissuti e avvenute in cento anni, ripetendo sempre quel suo intercalare: La mia memoria è una valle di Giosafat tutta affollata di maschere.
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