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      Ma chi ha a cantare dee far quello che più gli piace.
      - Però sarebbe ottimo, soggiunse il P. Vallotti, che alla musica di camera non si mescolasse mai la musica di teatro.
      - Io ho alcuni madrigali dell'abate Clari e dell'abate Stefani, disse Amorevoli.
      - Ecco un artista di buon senso.
      - Per metà, maestro. Perchè ho anche un recitativo di Vinci, e due arie del Pergolese e di Jomelli; il pubblico vuol essere accontentato anch'esso, e se dieci gustano Clari e Stefani, mille comprendono la musica teatrale, anche perchè l'hanno sentita ad eseguire più volte, e vi recano un giudizio più ammaestrato dall'esperienza.
      - È questa un'ottima ragione, disse l'Algarotti.
      - Pessima, entrò a rispondere il P. Vallotti che aveva la stizza del frate, del vecchio e del profondo scienziato, disprezzatore degli uomini superficiali e che, in quanto all'Algarotti, non avea potuto sopportar la lettura di quel suo trattatello sulla musica.
      Ma l'Algarotti non si scontorse punto a quella cruda opposizione, ma sorridendo blandamente:
      - Ognuno porta l'opinione sua, disse. Bensì mi rincresce di averne una che sia opposta a quella di un sì grand'uomo qual siete voi.
      L'Algarotti era stato, già ognun lo sa, alla Corte del Re filosofo, la cui filosofia consisteva nel volere all'ultimo essere adulato. Era stato col Re di Polonia, il quale non amava certo di essere strapazzato dai letterati. S'era trovato in Francia con Voltaire, con Diderot, con tutte le altre colonne della Francia nuova, e seppe sì ben fare che quei grandi uomini avevano lui in conto d'uomo grandissimo.


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Cent'anni
di Giuseppe Rovani
pagine 1507

   





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