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      Però, altezza, mi pare come di essere caduta in un abisso, senza sapere chi m'abbia dato la spinta. Abbiate però la mia fede che io sarò a Milano religiosamente nel più breve tempo possibile, per quanto dipende da me.
      Può parere strano come in questo breve dialogo nè la contessa abbia mai parlato del conte marito, adducendo al doge il fatto ch'ei trovavasi in Venezia; nè il doge, che pur sapeva tutto, non le abbia mai toccato un tal tasto. Ma la contessa naturalmente scansò di nominare chi poteva farla arrossire. E il doge a cui era stato riferito il fatto del duello, tacque perchè e l'autorità suprema di Venezia e tutte le altre autorità subalterne avevan l'obbligo di ignorare una cosa che, nota, doveva provocare una pena a danno degli infrattori di una legge della Repubblica contro il duello. Chè tanto allora, come prima, e come dopo, e come ora, non possiam dire come sempre, il duello costituiva un fenomeno sui generis del codice criminale, pel quale era esso proibito e punito; e nel tempo stesso era punito e svergognato chi non lo accettava, e non adempiva agli obblighi assurdi che traeva seco. Onde l'autorità, come una mamma innamorata dei figli, chiudeva un occhio, quando sapeva che un Veneziano dava od accettava un duello, e si compiaceva del suo coraggio; mentre poi esagerava nelle ordinanze pubbliche la severità delle frasi contro i trasgressori delle leggi.
      Un'altra cosa poi dobbiamo far osservare ai lettori che della Repubblica di Venezia e dei Dieci si son fatti un'idea convenzionale, tutta nera e tutta cupa.


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Cent'anni
di Giuseppe Rovani
pagine 1507

   





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