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      Non del resto, in quella sera di quinquagesima, trattavasi d'arte. La musica e la danza, le trachee e le tibie, che per un secolo intero avevano tenuto il mondo nel loro dominio, avevano dovuto cedere il campo alle grandi cose e ai grandi fatti, tanto che la musica serviva più d'occasione che di scopo, e se voleva attrarre la gente e scuoterla, bisognava che si facesse ausiliaria della politica e dei fasti militari. La scienza e l'arte della parola avevano preceduto, anzi avevano generato i fatti, ma le altre arti sorelle dovettero aspettare, per trasformarsi, la piena maturità di essi. Ma di ciò parleremo in momenti di minor premura, e quando la folla non ci assorderà col suo vasto mormorìo, da farla parere un mar tempestoso.
      Appena infatti la folla, dopo l'ultima lotta e le ultime violenze incontrate nel prender d'assalto le sedie della platea, potè espandersi in lungo e in largo e respirare; e quelli che avevano sofferto di più, poterono tastare le membra indolenzite per valutare il grado di importanza delle contusioni ricevute, e dare una occhiata di riassunto ai vestiti, per verificare se le falde strappate erano ancora capaci di un ristauro, se gli orologi non si erano dileguati strada facendo, se le ciarpe e i veli erano stati irremissibilmente involati dalla bufera; cominciarono i discorsi, le discussioni, i diverbi, gli alterchi, segnatamente fra i crocchi e i gruppi di quella parte di pubblico, che, ad onta di essersi trovata sulla piazza col boccone in bocca e sotto il sole ancora brillante delle ore tre, non era stata molto esperta nel regolare le mosse durante la crisi dell'ingresso, e aveva dovuto accontentarsi di stare in piedi, esposta alla perpetua ondata di cui era vittima e cagione nel tempo stesso.


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Cent'anni
di Giuseppe Rovani
pagine 1507