Ma il papa che, se era fedifrago, era anche incauto e per nulla conoscitore degli uomini e delle cose, ben presto dovette accorgersi che conto potesse far egli dell'ajuto del Borbone, quando pervenne nelle sue mani un proclama, che pubblicamente leggevasi per Napoli e nel quale, tra l'altre cose, dicevasi: «che importa a noi che i Francesi entrino in Roma e che in quella città penetri la rivoluzione? Si pianti pure l'albero della libertà in Campidoglio, in piazza Navona, in piazza San Pietro, e venga intanto il papa a rifugiarsi tra noi, e faccia circolare nel nostro regno le trafugate ricchezze. Un paese privo di derrate, di coltivazione, di commercio, spopolato e mancante di braccia, dee presto o tardi riuscire a carico della repubblica conquistatrice, e spogliato che sia, non potendo mantenersi senza il papa, dee cadere nelle nostre mani, come ai tempi di Roberto, di Ladislao, di Giovanna.»
E fin qui abbiam creduto bene di diffonderci sulle cose romane e sulle vertenze tra la Santa Sede e le armi repubblicane; per essere fedeli all'intento principalissimo di questo lavoro, che costituisce la sua ragione di essere, ed è quello di pubblicare ciò che si tenne celato o nei manoscritti o in quegli opuscoli coraggiosi, che, avendo circolato liberamente allorchè il tempo lo concedeva, furono poi violentemente messi sotto chiave, o, senza più, vennero abbruciati dalle gelosie, dalle ire e le vendette posteriori; e ciò facciamo per rimediare, in parte almeno, alle bugie, alle simulazioni, alle dissimulazioni di alcune tra le storie più riputate e più lette, e che, protette dalla bandiera della verità, portarono in giro molta merce di contrabbando.
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