Fin dall'alba dunque del terzo giorno quella folla capitanata dal Camillone, dal Pinelli e dal Corona, mosse festosa a piantare l'albero della libertà nelle piazze principali di Roma.
Era da quasi due anni che sentivano a parlare con invidia della nuova condizione delle città dell'alta Italia, e di Milano segnatamente; della libera vita che vi si godeva, dell'utile delle nuove istituzioni, della pubblica felicità, dei clubs, dei teatri, della libera stampa, dei discorsi in piazza, dei nuovi costumi introdotti; e la fama, magnificando ed esagerando il bene senza toccar punto del suo contrario, e dissimulando gli abusi, gli eccessi, i disordini, aveva talmente esaltati i desiderj e le speranze di que' cittadini, che quando finalmente le videro appagate, la loro gioja non ebbe più ritegno e proruppe con un impeto che la stessa Milano non avea mai sorpassato.
Ma seguiamo l'onda del popolo, e fermiamoci con essa nel foro romano per sentirvi il discorso che l'avvocato Corona improvvisò nell'istante che si piantò colà, per la prima volta, la simbolica pianta coi motti: libertà, eguaglianza, virtù, patria.
Colui, salito sopra un capitello corinzio rovesciato che giaceva da tempo immemorabile tra la colonna di Foca e le tre della Curia, così prese a dire:
«Romani, siete liberi. L'albero della libertà è piantato. Libertà, eguaglianza, virtù, patria; - ecco le quattro pietre su cui s'appoggia a perpetua durata il sacro vessillo della comune nostra rigenerazione.
«Libertà è questa, la quale non iscuote il ferreo giogo della tirannia con altro fine che con quello di garantire a ciascun uomo i suoi diritti naturali inalienabili.
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