Ma la questione è così chiara, è così nettamente veduta da tutti, è così risoluta, che non sappiamo perchè noi l'abbiamo ritentata ancora; se non fosse che, trovandoci in Roma, il discorso doveva cadere spontaneamente su Roma, prima di recarsi al Colosseo dove uno spettacolo insolito, dopo quasi sei secoli che non se ne davan più in quell'anfiteatro, chiamò da tutte le vicinanze dell'eterna città, e da altre città d'Italia, una folla infinita di popolo italiano, invitata, anzi attratta per quell'occasione, anche allora, come adesso, a respirare in quella luce, in illa luce, per ripetere il motto di Cicerone, un'aura più libera, più forte e più feconda.
Il lettore conosce per qual ragione entriamo nel Colosseo e ci occupiamo di descrivere l'ultimo spettacolo che là siasi dato.
Il giorno 17 ottobre dell'anno 1798, intorno alle ore ventuna, tutta la città pareva che si fosse versata nelle adjacenze del Colosseo. Una compagnia drammatica francese, diretta dal capocomico Rosier, di quelle compagnie che fiutano da tutte le parti la pubblica passione, per atteggiarsi a quella, e saziarla, e cavar denari e applausi anche senza il prestigio di una grande abilità, aveva ottenuto dal generale Massena il permesso di rappresentare nel recinto dell'anfiteatro Flavio La morte di Cesare, di Voltaire. Tutto fremeva di repubblica allora; chi avesse osato manifestare delle simpatie monarchiche, sarebbe stato pugnalato in piazza. Lo stesso Bonaparte, che, fremente, chiudeva in sè l'esagerazione del dispotismo, pur s'inchinava al simbolico berretto, e gridava repubblica anch'esso; che, chi vuol dominare la moltitudine, comincia dall'accarezzarla e accontentarla in tutto, col sistema onde i seduttori blandiscono le amanti, per ottenerle, e disprezzarle dopo, se mai dà il caso.
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