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      Il conte Aquila cominciò allora ad amar la madre più del figliuolo, il quale, per dispetto, non accusava neppure svegliatezza di spirito. Il conte diventò cupo più che mai, e bisbetico, ed anche un po' inumano. Voleva come sciogliere e disnodare quella natura inerte e disadatta.
      Senza volerlo, egli sfogava l'interna stizza quando al fanciullo, con intento ortopedico, stirava e gambe e braccia e collo, per vedere di migliorare coll'arte lo scarto della natura. Il lettore si ricorderà del dialogo tra il pittor Bossi e il canonico Zanoja, dove vennero a toccare della morte di quel fanciullo. Pur troppo il fatto era vero. Avendo egli l'abitudine di far subire al fanciullo una ginnastica intempestiva, qualche volta lo palleggiava, lo forzava a star dritto sul palmo della mano, lo gettava in alto per riprenderlo nelle proprie braccia. La contessina Amalia tremava e pregava e piangeva a que' giuochi perigliosi; il fanciullo strillava; ma il padre era irremovibile, perchè tenevasi certo di giovare allo sviluppo del figliuolo. E venne il dì che, siccome sappiamo, gli cadde in terra, e là giacque. - La nutrice accorse, ma indarno; la madre svenne; il conte rimase attonito e atterrito. Fu mandato a chiamare il dottor Monteggia. Ma la scienza non risuscita i morti. Al racconto che fecero e nutrice e madre e astanti, il celebre chirurgo, preso di sdegno, stette per rimproverare acerbamente il conte. Ma il conte lo saettò collo sguardo in modo, che al professore non bastò l'animo di parlare.


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Cent'anni
di Giuseppe Rovani
pagine 1507

   





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