Ora è da ricordare un fatto. Nel primo anno che il principe Beauharnais fu installato vicerè d'Italia, e cominciò, nel tempo che risiedeva in Milano, quel sistema di vita discola e donnajola che, grado grado, doveva poi addensargli contro tanti nemici, ebbe ad adocchiare anche l'avvocatessa Falchi. Allora ella poteva contare ventinove anni, ed era nel massimo fiore della sua beltà da baccante, senza linee greche, nè etrusche; linee, come tutti sanno, caste e severe, e che non possono far nascere che amori seri; ma pomposa invece di quelle forme portate dall'arte carnale della decadenza; la quale se sarebbe fuor di posto nei riti di Vesta, potrebbe fare da frontispizio ad una illustrazione delle feste lupercali. Il vicerè dunque la adocchiò e l'avvicinò, ed ella, quantunque fosse orgogliosa come una Gezabele, fu benigna e cortese con quell'Acabbo, gran cordone della Legion d'onore e della Corona ferrea. Che a lei piacesse il vicerè, come uomo, come giovane, come cavaliere, nessuno lo voglia credere. Ella sorrise al vicerè perchè era il vicerè, senza considerare che avesse piuttosto ventiquattr'anni che sessanta. Il vicerè poteva essere cagione che la ricchezza già considerevole dell'avvocato Falchi crescesse a dismisura. Per suo mezzo infatti, nella compra e vendita di beni nazionali, nel giro delle carte pubbliche, negli appalti, l'amicizia del vicerè equivalse ad una lauta eredità.
Il Falchi era un po' geloso di sua moglie; specialmente se i giovinotti, per cui ella poteva avere qualche debolezza, non presentavano alcuna speranza di speculazione, nè assomigliavano a carte di rendita, nè a beni demaniali.
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