Tra i forastieri che alla tavola comune mangiavano, sentivano e non parlavano, v'era il noto giojelliere e minutiere Giovanni Manini di Milano, il quale aveva bottega sotto il coperchio de' Figini e serviva la Corte. Era venuto a Parigi per liquidare de' conti arretrati, e il giorno prima avea parlato al vicerè Beauharnais, tornato allora allora dalla Russia a Parigi.
Egli dunque ascoltò per un pezzo; poi disse con quell'accento di compiacenza orgogliosa d'un negoziante alla moda che per la sua condizione è ammesso alla confidenza dei grandi che serve:
- Di quest'affare me ne parlò jeri il vicerè stesso. Loro signori già mi conoscono. Io sono il giojelliere di corte.
- Ah sì!... disse il conte Aquila.
- Io ebbi l'onore di fornire le gioje all'illustrissima contessa sua moglie.
- E come ha fatto il vicerè a sapere e a interessarsi già di questa notizia?
- Pochi giorni fa ritornò di Russia lo stesso colonnello Baroggi colla bella sua moglie. Il vicerè ha della predilezione per questo colonnello; le male lingue dicono che sia per la moglie; ma io non so niente. Quello che so è che il vicerè mi disse jeri queste precise parole: «Voi, che non siete più giovane, dovreste sapere qualche cosa di un testamento stato rubato dallo scrigno del marchese F... nel 1750, la notte stessa della sua morte.» Nel 50, io non ero nato, gli risposi, ma di questo fatto mi parlò cento volte mio padre, nominandomi il preteso autore del furto.
- E chi sarebbe questo autore preteso? domandò il vicerè.
- La cosa è delicata, altezza, allora io dissi.
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