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      Allorchè il conte Aquila, salito lo scalone, fu per entrare nel proprio appartamento, la contessa, insieme colla propria madre, che per caso quel giorno trovavasi là, fu sollecita a muovergli incontro. Ma il conte la salutò severamente, secondo il suo costume; salutò la madre secco, e comandò al maggiordomo, ch'era là anch'esso, di seguirlo in camera. Dopo alcuni minuti, stando la madre e la figliuola nel gabinetto di questa ultima, sentirono la voce del conte alterata e iraconda, e il maggiordomo che di lì a poco uscendo dalle stanze del padrone, diceva sottovoce:
      - Non si può più vivere in questa casa.
      S'egli è vero che, per consueto, i padroni di casa, come tutti coloro che esercitano un'autorità qualunque, provocano in chi li avvicina un sentimento il quale, anche allorquando le indoli son buone, insieme coll'amore e col rispetto, tien tuttavia in deposito qualche elemento di tedio e di pena; figuriamoci poi che tristissimo effetto essi sono destinati a produrre quando i caratteri sono orgogliosi, acri e tempestosi, e l'affetto non li riscaldò mai nemmeno durante il fuggitivo corso della luna di miele: un senso assiduo come di paura impaccia ogni pensiero, ogni gesto, ogni atto della povera moglie e di quanti sono condannati ad obbedire ed a servire in casa. Il conte Aquila, già lo sappiamo, apparteneva a questa genìa spaventosa dei tiranni domestici. Il maggiordomo non aveva ricevuto dal padrone che rabbuffi e parole crude per ogni menoma cosa che non gli fosse piaciuta; o un avaro ed un austero silenzio quando ne aveva indovinata ogni volontà. I servi e le cameriere si presentavano ai suoi ordini con pauroso rispetto; la moglie non differiva dai servi che per il posto gerarchico, il quale però contribuiva ad accrescere la sua rispettata servitù.


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Cent'anni
di Giuseppe Rovani
pagine 1507

   





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