Voglio dire che ho una grande credenza nel destino. Però questo fatto del colonnello mi ha messo sottosopra. Si vede che il destino ha fatto di tutto per giovarmi, e tentò quella via appunto che a me pareva la sola efficace. Ma non c'è riuscito nemmeno lui. Bisogna dunque cambiar strada. Oggi mi dimetto dalla supplenza di capo battaglione, e rassegno anche il grado di capitano. O tutto o niente - già lo dissi. O aver la Civica in pugno, o uscir dalle sue file, perchè non voglio trovarmi obbligato all'altrui comando, nè essere impedito di tentare quel che ho in testa.
E il conte fece infatti come disse. Prodotta una ragione plausibile, lasciò il grado di capitano, e si recò per alcuni dì in villa a meditare un nuovo piano di battaglia.
Intanto i tristi giorni si venivano avvicinando. Si era già oltre la metà d'aprile; il conte Aquila fece venire a Milano a proprie spese alcuni uomini che vivevano di contrabbando, furiosi tutti contro il governo, e segnatamente contro il ministro Prina, perchè da qualche tempo faceva esercitare dalle guardie di finanza che stavano al confine svizzero una vigilanza così insistente e rigorosa, che a coloro non rimaneva più che consegnarsi o morir di fame. Il conte che, e per il fatto del colonnello Visconti e per altri ostacoli che non gli pareva di poter superare a seconda delle proprie vedute, s'era venuto attiepidendo, si sentì riardere d'ira e di vendetta a certe parole della Falchi che astutamente gli tornò a parlare dell'offesa fatta dal vicerè alla povera contessa di lui moglie.
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