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      Il conte Alberico contraddiceva a tutto: il suo studio maligno consisteva nell'osservare che cosa piacesse o non piacesse alla moglie, per far sempre tutt'all'opposto; se essa prediligeva la compagnia di qualche cara amica, egli si comportava in modo che questa fosse costretta a non entrargli più in casa. Se a lei era antipatico qualche omaccio parassita e vile, che facesse la corte a lui per scroccargli i pranzi, ei gli prodigava ogni maniera di gentilezze, e sopratutto lo voleva aver sempre seco in casa, in carrozza, in palco, in villa.
      Ma, quello che costituì il tormento massimo di quella donna che, nonostante la sua forza d'animo, cominciò a perdere l'allegria, la freschezza e la rotondità, fu la continua burrasca in cui venne a trovarsi avvolta per ciò che riguardava la servitù. Egli pretendeva, senza dirlo (ma ciascuno se ne accorgeva) che la servitù odiasse e trattasse male la padrona; e siccome ciò, se avveniva per qualche poco, non poteva continuare, allora egli si rivoltava contro la servitù, ed or con un pretesto, or con un altro, scacciava la cameriera, scacciava il cocchiere, scacciava il cuoco. I servi si rinnovavano; sobillati da lui, in sul principio si comportavano indegnamente colla padrona, ma presto, accorgendosi della tristizia inqualificabile di lui, piegavano pentiti verso di lei, e si studiavano di risarcirla dell'offese. E allora egli ricominciava le persecuzioni, gridava, strepitava, qualche volta percuoteva; e i servi si licenziavano uno dopo l'altro, ed altri comparivano, e si tornava sempre al medesimo barbaro giuoco.


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Cent'anni
di Giuseppe Rovani
pagine 1507

   





Alberico