- A una tavola stavano il colonnello Belluzzi e il colonnello Morandi, mio amico. - Sedeva con loro un uomo tra i quarantacinque e i cinquant'anni, in abito nero. - La figura di lui, le pose, il piglio erano giovanili ancora; ma i capelli prolissi erano sparsi di striscie senili, la fronte solcata da lunghe rughe, l'occhio, sebben di linee grandiose e pure, era patito e stanco.
Salutato il colonnello Morandi, sedetti lor presso; feci portar un pan fresco di tritello, che in quell'estreme traversie del blocco, poteva dirsi un pane di lusso; e un bicchiere di vino di Barletta, il quale costava quanto lo Château-Lafitte delle cantine dell'imperatore dei Francesi; e stetti così ascoltando i discorsi avviati.
- A quanto m'avete raccontato, diceva quel signore in abito nero, vedo che la difesa non potrà prolungarsi molto.
- Due o tre settimane al più, e non c'è altro, disse il Morandi.
- Purtroppo! soggiunse il Belluzzi.
- È una fatalità, osservò quel signore, che in quest'anno, dovunque io capiti, debba sempre essere l'augello del malaugurio. Arrivai a Torino due giorni prima del disastro di Novara. - Giunsi a Roma e mi son messo con Garibaldi poco tempo innanzi la sua caduta. - Or venni qui per mettermi con voi, colonnello Morandi...
- E non c'è a far altro, credetelo a me. La difesa poteva protrarsi molto più a lungo; ma il Governo non seppe e non volle.
- Manin, rispose quel signore, era convinto (e lo provano le sue note alla Francia e all'Inghilterra) che Venezia, per un riguardo dovutole dalle potenze, sarebbe stata costituita come città anseatica: e questa speranza fu appunto cagione degli errori del governo.
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