Quello che posso dire è che la stessa cosa era stata fatta innanzi per Cesare, il mio secondo fratello, precisamente come per me che venivo dopo di lui, e che ciascuno degli altri fratelli era già destinato a istruirsi nella buona creanza e negli elementi della lingua latina all'ombra dei materni oliveti, per poi passare al reale Collegio di Genova, seconda e inevitabile fermata nel viaggio della nostra vita.
Mio zio, sulla sessantina, era un povero spirito, ma in fondo una pasta d'uomo più buona che cattiva: il quale passava una metà dell'anno in fare grandi prognostici sulle raccolte, e l'altra metà in deplorare le fallite speranze, oscillando così tra una sconfinata fiducia ed una assoluta disperazione.
La sola idea distinta che avesse nel cervello erano le ulive; il solo interesse della sua vita le ulive; il solo tema dei suoi discorsi, in casa e fuori, le ulive. Ulive d'ogni forma e qualità, salate, secche, indolcite, ingombravano la tavola a desinare e a cena; non v'era piatto che non avesse una guarnizione d'ulive.
Tutte le passeggiate sue, nelle quali io ero il compagno obbligato, non avevano altro scopo che di osservare le ulive sulle piante e la loro maturazione. In una parte dell'anno si camminava addirittura sopra strati d'ulive all'altezza di un piede, stese sul pavimento di un'ampia sala della casa. L'aria stessa che si respirava, era pregna di ulive. Nei pochi intervalli in cui le ulive erano lasciate in pace, mio zio si occupava di dir male della Francia e dei Francesi.
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