Poche ore dopo ero di nuovo sotto quel tetto odiosissimo che avevo sperato di non rivedere mai più.
Lo zio e la Margherita mi burlavano spesso per il mio tentativo di fuga. Da quel giorno in poi mi chiamavano "il fuggiasco" o "il disertore", e chiunque capitava in casa era pregato di chiamarmi con quei nomi. La mia fuga non ebbe altra punizione che questa: ma il canonico, che aveva già informato il padre della mia vergognosa condotta nell'affare della serenata, allora gli scrisse di nuovo, raccontandogli per filo e per segno la mia ultima scappata, qualificandomi inoltre per un ragazzo caparbio, ostinato, cocciuto ed indomabile; tanto che il padre vide la necessità di porre subito un freno al mio spirito ribelle, e risolvette in cuor suo di mettermi addirittura in collegio. Pochissimi giorni dopo i fatti narrati, portai a casa una lettera della mano ben nota di mio padre, e lo zio, datale una scorsa, prese l'aria di una solenne gravità. Aggrottò più d'una volta le ciglia, andò in su e in giù per il salotto da pranzo, poi, fermandosi dirimpetto a me e guardandomi fisso in volto, disse, con tono di voce da far effetto: "Disertore, vostro padre vi richiama a Genova: il collegio vi aspetta".
La vita del collegiale non aveva per me alcuna attrattiva; ma quei giorni che allora passavo m'erano così tristi e noiosi, che qualunque cambiamento era ben venuto. Inoltre, l'idea che io dovevo entrare in collegio m'era spuntata nella mente col primo barlume di ragione, e formava una parte sostanziale dell'esser mio.
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Margherita Genova
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