Quest'episodio del viaggio ebbe l'effetto di mutare i suoi sentimenti verso di me; perché, dopo avermi mandato in cuor suo al diavolo, fin da quel punto non si curò di me più di quanto avrebbe fatto s'io fossi stato ancora nel salotto da pranzo dello zio. Di modo che, quando, giunto finalmente a Genova, dopo quarant'otto ore di quello sballottìo, mezzo morto dagli strapazzi e dalla fame, smontai di vettura, mi trovai solo e senza guida in mezzo alla piazza dell'Annunziata col mio fagotto sotto il braccio e con gran voglia di dare in un dirotto pianto. Non avevo ancora nove anni.
Sebbene quando lasciai Genova fossi molto piccino, pure la memoria dei luoghi era così viva in me, che avrei potuto benissimo riconoscere la strada di casa mia, se fossi smontato in un luogo centrale: ma in quello così fuori di mano m'avvidi che non ci sarei riuscito. Risolvetti dunque di domandare per qual parte avrei dovuto prendere; e visto a poca distanza un capannello di signori con la frusta in mano e una pipetta nera in bocca, mi diressi loro; e, facendomi coraggio, li interrogai se potessero dirmi dove abitava il signor Benoni mio padre. Parve che la domanda destasse in loro una grande ilarità; e quando le risa finirono, uno di loro, alto, bruno, con lunghi baffi e con un berretto nero di seta, sormontato da un cappello nero e lustro, mi domandò se avessi danaro: "Ho uno scudo" risposi. "Ebbene, ragazzo mio, da' qua, ed io ti condurrò dal signor... come si chiama?". Io smaniavo tanto d'essere a casa mia, che acconsentii subito, e gli posi in mano lo scudo.
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