Gittarmi in una lotta con Anastasio e i suoi compagni era lo stesso che mettermi in un pelago di guai e rinunziare alla tranquillità della vita. Era miglior partito lasciare che le cose andassero come andavano, ed io godermi della mia pace. Questo sentivo e dicevo a me medesimo venti volte al giorno, e venti volte al giorno un qualche cosa dentro di me protestava contro le mie conclusioni da egoista e mi spingeva all'azione. Questo qualche cosa era uno spirito d'indipendenza continuamente ferito da ciò che vedevo, ed una certa disposizione al romanzo ed alle avventure, sviluppatasi in me negli ultimi tempi per la lettura di alcuni romanzi cavallereschi, dei quali ero ghiottissimo. Vendicare i torti fatti all'intera camerata, rialzare gli abbattuti e punire il tiranno, era pure la magnifica cosa per la fantasia di un giovinetto di tredici anni, piena zeppa delle nobili gesta di Rinaldo, di Ruggero, d'Orlando e di tutto lo stuolo dei cavalieri erranti. Questa, dicevo a me stesso, sì questa sarebbe una nobile impresa, un'impresa degna di me.
E così ondeggiando tra i due contrari impulsi, mi trovavo in uno stato di penosa incertezza, quando accadde una cosa che pose termine alla mia perplessità.
Ho già fatta menzione di quel mio carissimo amico Alfredo. Egli era uno di quegli esseri teneri e gentili, che vivono delle proprie affezioni, e non potendo per la loro debolezza confidare in sé stessi, hanno bisogno di appoggiarsi ad un braccio amico. Questo appoggio Alfredo lo aveva trovato in me.
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